domenica 19 febbraio 2017

Flavio non c'è più

“Vince sempre chi più crede e chi più a lungo sa patir. Forza Silvio”. Questa scritta si trova sul muro della rampa di scale che dal reparto di terapia intensiva neurochirurgica sale verso il blocco operatorio del padiglione Lancisi. Giorno dopo giorno non faccio che leggere quella scritta e così, credo, anche tutti gli altri familiari con cui dò vita alla lunga processione di visite. Da quel 24 gennaio l’avrò letta così tante volte che c’è stato addirittura un momento che ho creduto che fosse così. Silvio forse ce l’ha fatta, Flavio invece no. Flavio da venerdì non c’è più. Inutile girarci attorno. Capisco il mio piccolo cervello che prova a razionalizzare dicendosi tante e tante cose, tutte potenzialmente vere per carità, ma la verità è una sola: Flavio non c’è più. Flavio aveva subito, lottato, patito, creduto e sperato, ma non ce l’ha fatta. 28 anni. Nei 10mq scarsi della sala d’attesa davanti alla porta che separa la vita come noi la conosciamo con quell’Acheronte che è la terapia intensiva del reparto di neurochirurgia, ne vedi di persone. Ne senti di storie. Una di queste storie raccontava di un padre e di una madre, di un fratello maggiore, che stretti dall’affetto di amici veramente unici, attendevano il risveglio del “piccolo” Flavio. Flavio lottava dal 30 Dicembre scorso. E forse questa è la cosa che mi fa più male. Perché dopo essere stati presi dalla disperazione, essersi ripresi, aver cominciato a sperare, ricaduti e mai arresi, la sconfitta, la resa ad un destino bastardo ed infame, brucia ancora di più. Dopo un mese e mezzo di lotta, superando due emorragie, due infezioni, e chissà quante altre complicazioni no, non lo accetto. Perché sfido chiunque dopo un mese e mezzo, dopo aver passato tutta la gamma delle esperienze umane, anche in una sola giornata, per poi ripassarle più e più volte, non sentire in fondo al cuore e nella testa quella maledettissima voce che ti dice: malgrado tutto siamo ancora qui, ne abbiamo passate tante, il peggio è passato, ce la faremo. E non si zittisce neanche quando tutto sembra volgere al peggio. E a quel punto sei fregato. Perché quando il peggio arriva ormai hai perso ogni difesa, sei senza corazza e la botta la prendi tutta, come un treno che ti colpisce in corsa. Flavio si era laureato da poco e stava per andare a vivere da solo. Non lo conoscevo, Flavio. Mai parlato. Mai scambiato un saluto. Conoscevo, o meglio parlavo, con suo padre Ugo. Un uomo di un’umanità fuori dal comune. Parlavo, o meglio scambiavo sguardi e sorrisi, con sua madre Caterina. Flavio “dormiva” nel letto accanto a quello di mio padre. Lo vedevo tutte le sere che, vestito e sterilizzato, entro a trovare papà. Chissà se ascoltava anche lui i resoconti che faccio puntualmente sui successi della Roma o sulle mie giornate lavorative a mio padre. In questi due giorni spesso mi sono domandato perché la sua morte mi avesse così colpito. E la risposta non è così banale credetemi. Sarebbe facile dire: 28 anni, cos’altro aggiungere? Eppure non è solo quello. Certo che è anche quello, ma non solo. Sei lì, abbracci stretto il padre, baci la madre, abbracci il fratello maggiore. Eppoi ti volti, la testa bassa. Non vuoi vedere, rifiuti una scena che non potrai più cancellare. E in quell’attimo noti negli occhi dei parenti degli altri pazienti quello che hai riconosciuto essere il tuo terrore: essere davanti ad una scena che potresti vivere il giorno successivo. Vedere quello che potrebbe essere per te. Ecco la miseria dell’uomo. Certo avresti meritato parole più belle e importanti ed io invece ci inciampo, le “mozzico”, le “ciancico”, le maltratto. Però volevo salutarti in qualche modo e dire Grazie alla tua famiglia. Perché, forse non siete riusciti a farmi credere che più a lungo crede e patisce alla fine vince, anzi sono sempre più convinto che in questo mondo chi merita o chi lotta non ha mai ciò che si merita, ma siete riusciti a farmi ricredere su di me e sul genere umano. Fai buon viaggio. Ovunque ti porterà.

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